lezione n.3

Mi sono sempre chiesto che opere farei di fronte all’Apocalissi. 
Una moltitudine di effetti straordinari non dovrebbe mancare. E neppure la disperazione che l’inverosimile risulti vero. Correrei nudo come negli affreschi gotici o mi siederei singhiozzando per non aver capito nel corso della vita il punto centrale della questione. Ogni tanto si fa esperienza, per pochi attimi, quasi a caso, dell’assoluto. Subito sempre mi chiedo da dove deriva la passione per il relativo, che forma il dettaglio dell’esistenza, e lega stretti alla vita, nessuno escluso.
È una riflessione tra le sproporzioni del mondo, mondo breve, in cui l’uomo vive.
Nasce la decisione ferma di seguire poche cose, fuori epoca, che riguardano i presenti e chi c’è già stato. Pochi temi interrogativi: il motivo dell’esistenza, la sua fine, il male, l’ingiustizia, il dolore. Alcuni perché. Non sono infiniti.
Mi chiedo se su questi temi saremo giudicati nel terribile supercircuito dell’Apocalissi, con una tendenza alla sostanza assoluta dei valori, o giustificati anche per fedeltà più minuscole e temporali, famiglia, città natale, riunioni di condominio. Non intendo fare della retorica leggera. L’insieme di una vita morale e spirituale, compresa l’arte, è inclusa in una fitta rete di dettagli. Mi chiedo se le sproporzioni evidenti che balzano agli occhi sono fornite da una libertà di fondo o da una schiavitù, un destino prevalente, che ci determina, a nostra gioia o perdizione.
In simili crocevia della mente devo contrastare subito una inclinazione giansenista: non riesco a credere alla libertà integrale dell’individuo. Faccio conto, con un atto di fede, che tale libertà esista sul serio e l’uomo sia interamente responsabile della trama morale della sua vita.
Lo scenario non cambia. Le grandi passioni, di fronte all’ineluttabilità eterna del nulla o di Dio, denunciano l’inconsistenza drammatica dell’esistenza, puerilità per chi vi affonda.
Il dolore è divenuto un globo, come la terra.
La tenerezza si è frantumata.
Avrei voluto essere un monaco della Tebaide. Non lo sono stato. Avrei voluto morire in mille modi ragionevoli. Sono ancora vivo, e mi intenerisce ancora, persino, l’ombelico nudo delle ragazze che si fanno saltare in aria. Ho pena affettuosa per il vecchio con trecce e cappello che prega e dondola nello smarrimento dell’assenza temporanea di Dio.
L’esperienza, si vede, partecipata con cura, produce un definitivo scacco delle attese.
Il senso del mondo si tramuta in un sentimento di strazio. Quasi un nastro inciso.
È una risposta? Certo, ma non del tutto ragionevole.
Provo compassione non solo depressiva per chi muore, viene ucciso, o va a morire per cause dettate da altri.
Le costruzioni del mondo si agganciano ferree e, con ingegneria missionaria, erigono un edificio immotivato. È tragico sostituirsi a Dio. Va temuta la Sua Terribilità. Le prove del dolore, la temporalità, le mutazioni, la morte come necessità metafisica, extratemporale.
La guerra difende, o vuole onorare nobili cause, ma non costruisce che terrificanti conclusioni, per i presenti e i futuri. Fa capo ad una morte spicciola, non meno assoluta.
L’opera che ho messo in piedi intendeva dirne qualcosa.
E’ la resa del giudizio. Del mio almeno.
Mi allaga l’incapacità di capire.
Persino chi amo e per familiarità approvo.
E la Storia, cui ho sempre dedicato attenzione come tracciato indicativo di un significato comune a l’uomo, ombre comprese, in fine stritola la coscienza in un cappio di stupore e ribrezzo.
E’ stupida. E’ stata stupida.
Forse non ha motivo di essere.
Questa mia è una resa formale.
Una bandiera bianca.
Una certa misura di resa può scoprire forse alternative inedite di pace.

Fabio Mauri
19.09.2002





 La Resa, Fabio Mauri
installazione, 2009





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