rampicanti

rudere, Savio di Ravenna, 2011


 In architettura esistono due tipi di "mimesi". Una é quella che si rapporta alla natura, l'altra alle cose dell'uomo. La prima cerca nella natura un appoggio ed una conferma al suo disegno. Circondata da questa, quale un orizzonte in cui ritrovarsi e ripararsi dalla forza del proprio segno, non vuole primeggiare ma generare con lei un unico "luogo dell'anima". Una volta erano le pievi le piccole chiese di campagna circondate da prati e da alberi su colline bruciate dal sole, piccoli mausolei, o moschee bianche con le cupole e il minareto che svettavano tra sugheri e cipressi, torri di pietra tra le rocce, rovine di templi immerse tra gli ulivi vicino al mare.
La natura e l'architettura si fondevano in un solo paesaggio, in cui il materiale dell'una si specchiava in quello dell'altra come un riflesso. Il pieno accordo tra luogo naturale e opera dell'uomo era un tacito assioma,  una legge quieta che, da Platone ad Aristotele, é arrivata sino agli albori del secolo scorso.
L'arte é mimesi della natura. La mima, la reinventa, la accompagna fedelmente nel cammino del tempo. Non c'era contrasto e nemmeno violenza. L'abitare sulla terra era una convivenza armonica in cui l'uomo beneficiava della natura, e questa traeva profitto e bellezza dalla presenza dei disegni dell'uomo. Così nascevano i luoghi.
Non necessariamente un'arcadia, nel senso "panico" del termine, ma la sensazione di familiarità e di fierezza reciproche. Il luogo dell'abitare era il centro di un mondo, di cui la natura era parte integrante.


 I luoghi e la polvere. Sulla bellezza dell'imperfezione - "la mimesi"
Roberto Peregalli


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